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Capita spesso di essere quasi giunti alla vittoria quando, improvvisamente, succede qualcosa di irrazionale, incomprensibile e quanto sembrava a portata di mano svanisce nel nulla.

Pare impossibile temere di vincere e invece è un’eventualità che si presenta spesso, sia negli sport individuali sia negli sport di squadra.

La situazione appena descritta può essere inquadrata come nikefobia, vale a dire la paura di vincere. La parola ha origine greca e si compone di “nike” vittoria e “phobos” ovvero paura.

Si tratta di una fobia molto diffusa in ambito sportivo, che può caratterizzare anche altri contesti, come la scuola o
il lavoro.

La paura di vincere deriva da valenze conflittuali che la persona attribuisce alla propria pratica sportiva.

La paura di vincere può apparire in seguito al raggiungimento di una vittoria  che determina nel soggetto una forte e inconsapevole responsabilità.

Il nuovo atleta è chiamato a cimentarsi in nuovi contesti, che prevedono un’esposizione nei confronti del pubblico, avversari, media e che potrebbero destabilizzarlo.

Quest’ultimo è chiamato a recitare un nuovo ruolo, correndo il rischio di perdere il proprio mondo, in termini di abitudini, rituali.

Il raggiungimento di vittorie importanti o di nuovi record personali rappresenta un innalzamento della propria soglia prestativa personale.

Talvolta la paura di vincere fa la sua comparsa in atleti che non hanno raggiunto risultati particolarmente rilevanti, nonostante essi siano potenzialmente delle promesse.

Dietro a tali fenomeni si celano costrutti psicologici che tendono a considerare il successo come non meritato, o come il raggiungimento di desideri che confliggono con i paradigmi valoriali del soggetto, determinando dissonanze cognitive.

Tali difficoltà si concretizzano nella mancanza del risultato in gara, nonostante la buona qualità degli allenamenti, oppure in un’eccessiva ansia pre – gara, o ancora nel verificarsi di banali incidenti o infortuni che hanno ripercussioni sul risultato finale.

Spesso, l’atleta che soffre di questa difficoltà ritiene di non possedere le adeguate abilità per raggiungere il successo o di non essere all’altezza delle aspettative nei confronti di figure di riferimento come l’allenatore, i genitori, i compagni, i tifosi.

Questa sintomatologia è trasversale, nel senso che può colpire atleti di alto livello, di livello amatoriale o dei settori giovanili.

Le ripercussioni sono molto pesanti e si traducono in un abbassamento del livello di autostima e del senso di autoefficacia, in una comparsa di demotivazione che, a lungo andare, può portare all’abbandono della disciplina.

Una stima approssimativa quantifica una percentuale del 25% circa di atleti che presentano tale problematica: uno sportivo su quattro sperimenterebbe questo stato psicologico durante la propria pratica agonistica.

È un dato che deve fare riflettere gli operatori del mondo dello sport riguardo all’opportunità di prestare più attenzione a queste dinamiche.

Ci si può rivolgere ad uno psicologo dello sport che può offrire un supporto agli atleti e agli allenatori nella gestione di queste difficoltà.

 

Dott. Alessandro Visini